martedì 23 marzo 2010

Quando gli scrittori erano belli e sapevano scrivere ovvero ... che cosa mi porto da leggere!

Sebbene abbia fatto il libraio per più di un decennio non mi è mai piaciuto scrivere di libri. Parliamoci chiaro ... le recensioni non sono mai state il mio forte!
"Se il commento di una poesia supera la sua lunghezza, evidentemente il poeta aveva ben poco da dirci", sosteneva a ragione un mio professore di liceo, l'unico che oltre a non essersi mai approfittato del mio tempo non mi ha fatto mai pentire di essermi iscritto a quella scuola. Tenterò pertanto di concludere questo post prima che il numero complessivo delle sue batture superi quello dell'estratto che vorrei proporvi.
Che cosa mi porto da leggere? La verità è che in questo periodo non ho bisogno di storie ma soltanto di uno scrittore che sappia o sapeva ancora scrivere.
Legittimiamo al verbo un trattamento con i guanti: maiuscolo e grassetto. Ripeto: SCRIVERE
A molti di voi potrebbe essere sfuggita l'opera di un colosso della letteratura americana del '900.
Badate bene, dico sfuggita nel letterale significato del termine poiché pur conoscendo il nome dell'autore avreste semplicemente potuto decidere di fare a meno di leggerlo. A me è successo per anni e in fondo credo sia stata una fortuna. In verità lo avvicinai senza nemmeno troppo entusiasmo grazie alla dritta di un amico. Per anni me lo sono ritrovato  davanti, ordinatamente riposto sugli scaffali della mia libreria senza tuttavia provare nemmeno a sfogliarlo. Qualche anno più tardi mi bastò leggere solo due dei suoi romanzi per capire che avrei dovuto fermarmi immediatamente. Fu così che risparmiai le sue parole giurando a me stesso che se mai un giorno fossi riuscito a partire lo avrei portato con me.
Tomo unico ... l'opera completa. 1722 grammi di assalti frontali (giuro che l'ho pesato) ... 1665 pagine di pure prodezze stilistiche.
Giudicate voi! Signore e signori vi presento John Fante ... un pugile della letteratura.

"Mi diressi verso la mia stanza, su per le scale polverose di Bunker Hill, oltre i caseggiati ricoperti di fuliggine che fiancheggiavano la strada buia, dove sabbia petrolio e grasso soffocavano i futili palmizi che, come prigionieri morenti, erano incatenati a una zolla di terra stretta nella morsa del marciapiede nero. Polvere, vecchie case e vecchia gente seduta alle finestre, vecchi che uscivano traballando dalle porte, e che si trascinavano lungo le strade buie. Vecchi che provenivano dall’Indiana, dall’Iowa e dall’Illinois, da Boston, da Kansas City e da Des Moines, che avevano venduto la casa e il negozio per arrivare, in treno o in automobile, fin qui, nella terra del sole, con appena quanto bastava a sopravvivere finché il sole non li avesse uccisi; vecchi che avevano divelto le loro radici negli ultimi giorni della vita, abbandonando il compiaciuto benessere di Kansas City, di Chicago e di Peoria in cambio di un posto al sole. E poi, una volta arrivati, avevano scoperto che ben altri ladri si erano impadroniti della terra, e persino del sole. Smith e Jones e Parker, farmacisti, banchieri, panettieri, con la polvere di Chicago, di Cincinnati, di Cleveland sulle scarpe, condannati a morire al sole, e qualche dollaro in banca, abbastanza per abbonarsi al «Los Angels Times», abbastanza per tener viva l’illusione che questo fosse il paradiso e che le loro casette di cartapesta fossero dei castelli. Erano sradicati, gente vuota e triste, gente vecchia e giovane, gente di casa mia, condannata a morire al sole. Eccoli i miei concittadini, i nuovi californiani. Con le loro camiciole a colori vivaci e gli occhiali da sole erano in paradiso e si sentivano a casa.

Ma giù nella Main Street, giù a Towne e a San Pedro, e per un miglio lungo la parte inferiore della Quinta Strada vivevano tutti gli altri; le decine di migliaia che non potevano permettersi né gli occhiali da sole né una camiciola da quattro soldi, che si nascondevano nei vicoli durante il giorno e sgattaiolavano nelle topaie durante la notte. Nessuno finisce dentro per vagabondaggio a Los Angeles, se indossa una camicia fantasia e un paio di occhiali da sole. Ma se avete le scarpe impolverate e portate un maglione pesante, come quelli che si usano dove fa freddo, state certi che vi andrà liscia. Quindi, appena potete, procuratevi una polo, ragazzi, e un paio di occhiali, e delle scarpe bianche. Mettetevi l’uniforme. Vi aprirà tutte le porte. E anche voi, che ora siete a casa, fra qualche tempo e dopo lunghe dosi del «Times» e dell’«Examiner», finirete per prendere il volo alla volta del Sud assolato. Mangerete hamburger, un giorno dopo l’altro, e andrete ad abitare in alberghi polverosi, brulicanti di insetti, ma ogni mattina, svegliandovi, potrete ammirare lo splendore del sole e l’azzurro eterno del cielo. Le strade pulluleranno di creature raffinate che non possiederete mai e le calde notti semitropicali vi parleranno di avventure romantiche da cui voi sarete esclusi, ma vi sentirete ugualmente in paradiso, ragazzi, laggiù nella terra del sole.
A quelli che sono rimasti a casa potete sempre mentire, tanto non amano la verità, non vogliono conoscerla, preferiscono credere che, prima o poi, anch’essi vi raggiungeranno in paradiso. Non pensate di imbrogliarli. Sanno benissimo com’è il Sud della California. Anche loro leggono i giornali e guardano le riviste illustrate di cui sono tappezzate le edicole di tutt’America. Le foto delle case delle dive le hanno viste anche loro. Non hanno più niente da imparare."

[da John Fante, Chiedi alla polvere]

P.S.

E Sam cosa si porta? ... provate a chiederglielo.

Utilità, spunti e tentazioni

"Romanzi e racconti", di John Fante, I Meridiani Mondadori € 55.00




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